RISERVATO ABBONATI

Antonio Massimino per diventare uomo d’onore “si era macchiato la coscienza”

L’affermazione è del fratello Ignazio in una intercettazione che incastra il boss di Villaseta

Pubblicato 3 anni fa

L’affermazione è del fratello Ignazio in una intercettazione che incastra il boss di Villaseta

Il Gup del Tribunale di Palermo, Fabio Pilato, ha depositato le motivazioni della sentenza del processo “Kerkent” emessa lo scorso 21 febbraio, nei confronti di 28 imputati accusati a vario titolo di mafia, traffico di droga ed altri gravi reati tra i quali violenza sessuale e sequestro di persona (solamente a carico di Antonio Massimino, poi assolto).

Venti condanne per oltre due secoli di carcere e otto assoluzioni: questo il verdetto che ha messo la parola fine al processo di primo grado (stralcio abbreviato) scaturito dalla maxi inchiesta Kerkent – eseguita dalla Dia di Agrigento guidata dal vicequestore Roberto Cilona – che ha fatto luce sulla scalata al vertice della famiglia mafiosa di Antonio Massimino e su un grosso traffico di droga gestito come una holding.

Le condanne più pesanti, come è noto, sono state inflitte ad Antonio Massimino (20 anni), al suo braccio destro Giuseppe Messina (20 anni) e Francesco Vetrano (20 anni). Tra le assoluzioni spiccano quelle dell’imprenditore Salvatore Ganci, che era stato arrestato dai carabinieri per una vicenda di recupero crediti con una violenza sessuale (non commessa da lui) sullo sfondo; Valentino Messina, fratello del boss Gerlandino;

Il verdetto: James Burgio (8 anni); Salvatore Capraro (9 anni); Davide Clemente (9 anni e 6 mesi); Fabio Contino (8 anni); Sergio Cusumano (12 anni e 8 mesi); Alessio Di Nolfo (12 anni); Fracesco Di Stefano (assolto); Salvatore Ganci (assolto); Daniele Giallanza (assolto); Eugenio Gibilaro (10 anni); Pietro La Cara (assolto); Domenico La Vardera (8 anni e 8 mesi); Domenico Mandaradoni (8 anni); Antonio Massimino (20 anni); Gerlando Massimino (12 anni); Antonio Messina (12 anni); Giuseppe Messina (20 anni); Valentino Messina (assolto); Liborio Militello (8 anni); Andrea Puntorno (8 anni); Calogero Rizzo (5 anni); Francesco Romano (assolto); Vincenzo Sanzo (assolto); Attilio Sciabica (assolto); Luca Siracusa (8 anni); Giuseppe Tornabene (8 anni e 8 mesi); Francesco Vetrano (20 anni).

Il Gup, Fabio Pilato nelle 613 pagine della sentenza appena depositata, spiega per filo e per segno le ragioni di condanne e assoluzioni.

Per Antonio Massimino riserva questa “fotografia” che si ricava dall’esame complessivo del compendio probatorio, è dunque quella di un capomafia che, fin dal momento della scarcerazione si è da subito reinserito nello stesso circuito criminoso d’estrazione con un ruolo di vertice in seno non solo alla famiglia mafiosa di Agrigento/Villaseta ma all’intero mandamento di Agrigento, estendendo il suo potere su Porto Empedocle (ove ha sottomesso i Messina, parenti del noto Gerlandino) e su Favara (ove ha insediato al vertice della locale famiglia Sicilia Giuseppe).

Sussistono, dunque, a carico di Massimino Antonio gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto associativo di tipo mafioso a lui contestato”.

Nel collegio difensivo gli avvocati Salvatore Pennica, Giovanni Castronovo, Daniele Re, Monica Malogioglio, Vincenzo Salvago, Santo Lucia e Alfonso Neri.

Adesso è possibile ricostruire il processo attraverso l’esame delle motivazioni della sentenza. Scrive il Gup: Nel presente paragrafo verranno rassegnati i plurimi e convergenti elementi indiziari comprovanti l’inserimento degli indagati Antonio Massimino e Liborio Militello all’interno della famiglia mafiosa di Agrigento/Villaseta, il primo con il ruolo di vertice ed il secondo con il ruolo di suo più fidato sodale tra i componenti la famiglia.

In particolare, analizzando separatamente le due menzionate posizioni, si procederà alla disamina critica delle emergenze investigative raccolte ed alla rappresentazione della loro efficacia dimostrativa dei delitti ascritti, ciò sinteticamente operando (per mere ragioni di economia espositiva) dei rinvii agli stralci di principale interesse delle pertinenti informative di P.G. redatta dalla Dia, Sezione operativa di Agrigento, che analiticamente ricostruiscono la sequenza degli eventi ed i brani delle intercettazioni captate.

Le condotte di partecipazione all’associazione mafiosa commesse da Antonio Massimino e già accertate con sentenze irrevocabili e la loro rilevanza ai fini della disamina delle risultanze raccolte nel contesto della presente indagine.

Le emergenze raccolte comprovano l’appartenenza del Massimino Antonio all’associazione mafiosa “Cosa nostra“, con il ruolo di vertice della famiglia di Agrigento/Villaseta.

Ciò premesso, ai fini di una piena valutazione della portata probatoria dei pl uri mi e convergenti dati probatori non può prescindersi dal porre preliminarmente in evidenza le risultanze istruttorie cristallizzate nelle sentenze definitive che  hanno  coinvolto  il medesimo Massimino Antonio, accertandone il ruolo di esponente di vertice della consorteria mafiosa di Agrigento.

In tale prospettiva, occorre evidenziare come Massimino veniva arrestato, unitamente al fratello Ignazio, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 09.01.1999 dal G.l.P. del Tribunale di Palermo, nell’ambito dell’operazione antimafia denominata “Akragas”, laddove veniva indagato per avere fatto parte dell’associazione mafiosa denominata Cosa nostra ed in particolare della famiglia mafiosa di Agrigento Villaseta.

Nel contesto di detta indagine, in particolare, l’arresto di Massimino Antonio traeva origine dalle propalazioni rese dai collaboratori di giustizia Falzone Alfonso e Sciabica Daniele, i quali lo avevano indicato (al pari del fratello Ignazio) come soggetto  “vicino”  alla  famiglia  mafiosa   di  Cosa  nostra  di  Villaseta   (quartiere di Agrigento).

In particolare, lo Sciabica riferiva che Massimino Ignazio si occupava anche di danneggiamenti, furti, rapine, estorsioni, mentre il fratello più piccolo, l’odierno indagato Massimino Antonio “era al suo fianco e si occupava delle faccende delittuose più pesanti”.

Il riscontro del salto di qualità in “Cosa nostra”, realizzato  da Massimino  Antonio veniva rilevato in una conversazione captata il 15.06.1998, quando Massimino Ignazio riferiva ad altra persona che il proprio fratello Antonio aveva cambiato qualifica, facendo riferimento in modo assolutamente chiaro al fatto che era diventato “uomo d ‘onore” e che per divenirlo “aveva lavorato per gli amici”, “aveva lavorato giusto …..  si era macchiato la coscienza” (della motivazione della sentenza di primo grado emessa dal Gup di Palermo).

All’esito del giudizio instaurato nel citato procedimento, il Massimino, unitamente al proprio fratello Ignazio, veniva condannato alla pena di anni quattro di reclusione per associazione  mafiosa.

Il 26.06.2002, la Corte di Appello di Palermo, ritenendolo socialmente pericoloso, sottoponeva Massimino Antonio alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni 2.

L’l 1.07.2005, Massimino Antonio (unitamente al fratello Ignazio) veniva nuovamente arrestato, unitamente ad altri soggetti, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa 1’8 luglio 2005 dal Gip del Tribunale di Palermo su richiesta della Dda, nell’ambito dell’operazione c.d. “San Calogero“.

Con sentenza emessa in data 19.04.2007, il Gup del Tribunale di Palermo, nel processo celebrato col rito abbreviato, ha condannato Massimino Antonio alla pena di anni 15 di reclusione, e Massimino Ignazio alla pena di anni 15 e mesi 8, entrambi per aver fatto parte, in qualità di promotori e di organizzatori di un’associazione diretta al traffico di stupefacenti e di aver fatto parte delle famiglie mafiose operanti ad Agrigento, articolazione dell’associazione denominata Cosa nostra, con l’aggravante per entrambi di avere diretto l’associazione.

Onde meglio comprendere la caratura criminale del Massimino, si ritiene opportuno riportare appresso uno stralcio della sentenza del Gup di Palermo (irrevocabile):

“…In quel contesto (op. “Akragas” ndr) l’appartenenza dei co-indagati, fratelli Massimino Antonio e Massimino Ignazio alla detta associazione mafiosa nella sua articolazione territoriale della famiglia  di  Agrigento-Villaseta  si  desumeva  attraverso  lo  svolgimento dell’attività investigativa culminata nel processo contro Alba Filippo + 44.

I fratelli Massimino venivano, infatti, raggiunti, in quanto gravemente indiziati del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere Albanese Alfonso + 52).

Dallo svolgimento di detta attività investigativa (op. “San Calogero” ndr) emergeva la perdurante appartenenza di Massimino Antonio e Massimino Ignazio (…) alla associazione mafiosa Cosa nostra, nella sua articolazione territoriale di Agrigento-Villaseta.

Emergeva, altresì, la natura illecita dell’attività svolta dal gruppo, il vincolo di subordinazione degli associati a Massimino Antonio nella consumazione dei reati fine dell’associazione che sono stati accertati nel corso dell’indagine (danneggiamenti, estorsioni, detenzione illegale di armi), dai quali si ricava il contributo causale stabilmente reso ali ‘associazione mafiosa Cosa nostra. Omissis…

Che il periodo di detenzione sofferto non abbia reciso il vincolo che lega Massimino Antonio all’associazione mafiosa è confermato da quelle conversazioni intercettate che hanno dimostrato la precisa conoscenza da parte degli imputati delle vicende interne a Cosa nostra della provincia di Agrigento che, tra l’agosto e l’ottobre del 2003, ha vissuto una fase di fibrillazione dovuta ad un tentativo di recuperare posizioni di potere effettuato dal gruppo capeggiato da Falsone Giuseppe (esponente latitante della famiglia mafiosa di Campobello di Licata) ai danni della fazione riconducibile a Di Gati Maurizio (esponente, anche lui latitante, della famiglia mafiosa di Racalmuto, che, secondo quanto è emerso da altra attività d’indagine, durante la riunione della commissione provinciale di Cosa nostra interrotta dalla Polizia di Stato a Santa Margherita Belice il 14 luglio 2002, era stato eletto “rappresentante provinciale”). Omissis

Gli elementi chiaramente sintomatici della intraneità, con compiti di coordinamento, alla organizzazione di stampo mafioso di cui al capo D) della rubrica ricavabili dalle illustrate intercettazioni significative del ruolo del Massimino Antonio e dalla accertata responsabilità per il reato di cui ai capi E), vengono ulteriormente arricchiti dalle convergenti accuse degli imputati di reato connesso Di Gati e Gagliardo.

Il Di Gati dopo avere individuato il ruolo dei Massimino e dei Sicilia nella compagine mafiosa operante nell’agrigentino ed il posizionamento di costoro nelle vicende interne, ha riferito in ordine alla specifica posizione di Massimino Antonio.

Oltre a premettere il rapporto di vicinanza del Massimino Antonio al Sicilia Giuseppe, il DiGati ha evidenziato di avere conosciuto Massimino Antonio nel 1996, tramite Castronovo Salvatore (esponente mafioso della zona agrigentina, come spiegato nelle sentenze prodotte dall’organo del/l’accusa divenute irrevocabili), e che lo stesso imputato aveva contatti con il boss agrigentino Fragapane  Salvatore.

Nello spiegare tale circostanza, Di Gati ha ricordato di avere saputo dal Fragapane Salvatore che il Massimino Antonio era stato iniziato come “uomo d’onore”.

Inoltre, Di Gati ha riferito che, durante il periodo della sua latitanza, precisamente nel 2001, Massimino Ignazio, accompagnato da Fragapane Stefano, lo aveva incontrato per chiedergli di accreditare come rappresentanti (“uomini d ‘onore”) di Cosa nostra ad Agrigento (allora sguarnita dopo la detenzione di Cesare Lombardozzi) lui (Ignazio) e il fratello Antonio.

Infine, Di Gati ha precisato che, dopo  l’avvicendamento al vertice della provincia dello stesso Di Gati con il Falsone Giuseppe, avvenuto nel 2002, i fratelli Massimino (e quindi anche Antonio) erano passati con la fazione di Falsone, che gli aveva affidato la zona di Agrigento.

Ulteriori elementi a carico di Massimino Antonio provengono dalla deposizione di Gagliardo Ignazio  che ha ricostruito  il ruolo dei Massimino nella compagine mafiosa operante nell’agrigentino ed il posizionamento di costoro nelle vicende interne, sulla base di quanto riferitogli da Sicilia Giuseppe nel periodo di co-detenzione, riscontrando pienamente la deposizione di Di Gati, benché costoro abbiano attinto da fonti di conoscenza diverse.

Gagliardo, nel confermare il coinvolgimento del Sicilia Giuseppe nella “messa a posto” del Sodano Calogero, ha sottolineato come lo stesso Sicilia svolgesse dei compiti da luogotenente della famiglia coordinata da Massimino Antonio, proprio per averlo appreso in carcere dallo stesso Sicilia Giuseppe, spiegando che ciò accadeva perché periodicamente i Massimino si allontanavano da Agrigento.

Dunque, alla stregua delle risultanze processuali sopra illustrate ed alla luce delle considerazioni in diritto svolte nelle pagine introduttive, può affermarsi che l’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra ha accettato in via continuativa le “prestazioni diffuse” offerte dal Massimino Antonio, grazie ad un lungo periodo di militanza nell’associazione (a partire almeno del 1995), che non si è interrotto neppure dopo il periodo di detenzione carceraria per scontare una pena conseguita per lo stesso reato (art 416 bis c.p.). Omissis

L’inequivocabile intraneità nell’organigramma mafioso con compiti di dirigenza è, quindi, emersa non solo dalla rituale affiliazione, di cui ha parlato Di Gati, quanto piuttosto da una serie di condotte convergenti e sintomatiche del vincolo associativo tipico di coloro i quali sono legati a Cosa nostra, desumibili anche dalla fitta trama di rapporti con altri esponenti di vertice del sodalizio, quali il Fragapane Salvatore e il Falsone Giuseppe.

Una volta scarcerato, il 16.1.2015, veniva sottoposto alla misura di prevenzione  della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di anni 4, nonché alla misura di sicurezza della libertà vigilata; eleggendo domicilio in Agrigento,  in viale Monserrato, Villaseta (con scadenza prevista il 15.01.2019).

La precedente accertata partecipazione a Cosa nostra esonera, dunque, dalla dimostrazione della intraneità del Massimino Antonio all’associazione – già certificata dalle menzionate sentenze irrevocabili – e onera questo Ufficio esclusivamente della prova che questi, ritornato in libertà, abbia posto in essere condotte penalmente rilevanti e sintomatiche del suo contributo al sodalizio mafioso in epoche successive alle condanne riportate.

Onde meglio apprezzare la portata delle risultanze raccolte nel corso della presente indagine e che verranno appresso rassegnate, occorre infatti considerare che, secondo l’indirizzo  ermeneutico espresso dalla Suprema Corte: In tema di associazione  mafiosa, la valutazione della prova della continuità dell’adesione al sodalizio di un sagge/lo già condannato per lo stesso reato può essere trai/a da elementi di fatto che, autonomamente considerati, potrebbero anche non essere sufficienti a fondare un’accusa originaria di partecipazione (così, Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 43094 del 26106120 13).

Corollario di questo principio è che non è neanche necessario, ai fini della (nuova) prova rilevante per l’integrazione del reato de quo, una (nuova) condotta che riveli, in termini fattuali o naturalistici, il permanere del legame associativo, potendosi essa tradurre anche in “un contributo anche soltanto morale del/ ‘associato successivamente  alla  condanna alle attività del gruppo criminale di appartenenza” (Cass.Pen., Sez. 2″, n. 6819 del 31.1.2013)

Peraltro la celebrazione di dibattimenti che lo hanno riguardato hanno svelato pubblicamente la sua appartenenza a Cosa nostra: di conseguenza, è evidente che l’intera comunità nella quale egli vive lo riconosca quale diretta espressione della più feroce e pericolosa  organizzazione  criminale.

Ebbene, alla luce delle plurime risultanze investigative  raccolte,  tale  onere  può certamente ritenersi assolto, ben potendosi ricavare con assoluta evidenza  come  il predetto  Massimino  – analogamente  a quanto avvenuto al termine della carcerazione sofferta in espiazione della pena comminatagli nel processo c.d. Akragas – ben lungi dal rescindere i profondi legami con l’associazione criminale, dopo il periodo di detenzione subito in espiazione della sentenza di condanna nel c.d. processo “San Calogero“, abbia immediatamente ripreso la propria posizione all’interbo del sodalizio mafioso ed in particolare della famiglia mafiosa di Agrigento-Villaseta.

Egli invero:

–           si è incontrato con esponenti della consorteria inseriti in altre famiglie mafiose della provincia di Agrigento ed anche di Palermo, sia al fine di tessere rapporti finalizzati ad espandere il proprio potere criminale all’interno dell’associazione, sia al fine di giovarsi del vincolo solidaristico derivante dalla comune appartenenza al sodalizio mafioso in vista dell’approvvigionamento della sostanza stupefacente;

–           si è reso autore di condotte inequivocabilmente finalizzate ad ottenere il controllo di attività imprenditoriali, influenzandone le scelte al solo fine di acquisire consensi presso soggetti che a lui si sono rivolti per reperire un’occupa zione lavorativa;

–           ha altresì dimostrato di mantenere il pieno controllo delle attività criminali commesse nel territorio, addirittura intervenendo per dirimere controversie criminali essendo riconosciuto quale massima autorità cui rivolgersi al fine di ottenere “l’autorizzazione” alla commissione di un omicidio;

–           ha affermato il proprio controllo del territorio, esercitando la propria caratura mafiosa al fine di ottenere il pagamento di un credito asseritamente vantato da un soggetto che a lui si era rivolto, in ultimo così mostrandosi in grado di sostituirsi alla Autorità giudiziaria intervenendo, con effetto dirimente, nella risoluzione di controversie insorte tra privati.

Tanto chiarito, verranno appresso schematicamente rassegnati i molteplici e convergenti spunti che consentono di pervenire a tale conclusione.

L’autorizzazione chiesta a Massimino Antonio da Terrana Giovanni sui suoi propositi omicidiari in danno di Angarussa Giuseppe.

Le attività investigative hanno inoltre consentito di registrare un episodio altamente rappresentativo del dominio del Massimino sulle attività criminali operanti nel territorio di Agrigento, anch’essa chiaro corollario del ruolo apicale esercitato in seno alla consorteria mafiosa.

Emblematico in tal senso è la sequenza di avvenimenti registrai nel corso delle operazioni di intercettazione svoltesi tra il 15 ed il 19 ottobre 2015, allorquando emergeva il proposito omicidiario di Terrana Giovanni ai danni di Angarussa Giuseppe, reo del danneggiamento, a seguito di incendio, di un ciclomotore di proprietà dello stesso Terrana, ma in uso al figlio Terrana Cristian. La vicenda è dettagliatamente rassegnata alle pagg 865 e ss. dell’informativa finale redatta dalla Dia sezione operativa di Agrigento cui rinvia, riportandone appresso solo brevi stralci:

Per rendere esecutivo il predetto proposito delittuoso Terrana Giovanni, unitamente al figlio Terrana Cristian, si reca da Massimino Antonio per chiederne l’autorizzazione, accompagnato da Di Nolfo Alessio e da Meli Alessandro inteso “Brillantino’; quest’ultimo diretto nipote di Terrana Giovanni, in quanto la madre Terrana Angela è sorella del predetto Terrana Giovanni.

A testimonianza del proposito omicidiario di Terrana Giovanni, giova riportare fin d’ora l’affermazione proferita da Di Nolfo Alessio, di cui si parlerà meglio in seguito, a Meli Alessandro ove emerge inequivocabilmente il proposito criminoso di Terrana: “…ma quello però hai visto che ha fatto come un signore: è arrivato, ed è venuto a chiedere il permesso, perché non può fare che prende ad uno e gli spara …”

Come vedremo, l’autorizzazione ad uccidere Angarussa Giuseppe non verrà concessa da Massimino Antonio, il quale, con l’autorevolezza ed il carisma propri del capo, imporrà di dirimere la controversia tra Terrana Giovanni e Angarussa Giuseppe, attraverso direttive che tracceranno soluzioni alternative all’omicidio.

Nello specifico, ad Angarussa  verrà ordinato di rimediare al danno cagionato restituendo a Terrana Giovanni un ciclomotore di uguale valore economico, mentre verrà imposto a quest’ultimo di astenersi definitivamente  dai  suoi propositi  violenti.

Tuttavia, quest’ultima direttiva verrà disattesa da Terrana Giovanni, determinando, ancora una volta, l’intervento diretto di Massimino Antonio, così come si riscontrerà nel corso di una conversazione telefonica intercorsa tra quest’ultimo e Angarussa Giuseppe.

In data 15/10/2015, alle ore 10,59, si regista la conversazione ambientale, avvenuta a bordo de/l’autovettura Lancia Y monitorata, in uso all’indagato Di Nolfo Alessio, intercorsa tra quest’ultimo e Meli Alessandro inteso “Brillantino”. Il dialogo iniziale tra i due intercettati verte sulla controversia in atto tra AngarussaGiuseppe e Terrana Giovanni ed il figlio Terrana Cristian, che nel corso  della conversazione Meli indica come suo “cugino”.

Meli manifesta particolare livore nei confronti di Angarussa, autore dell’atto incendiario, tanto da esprimere la volontà di malmenarlo. Di Nolfo dice che Capraro Salvatore, soggetto pienamente intraneo all’associazione illecita monitorata,  ha  sottratto,  per ritorsione, l’autovettura ad Angarussa. Poco dopo salgono a bordo dell’autovettura anche Terrana Giovanni e il figlio di questi Terrana Cristian, i quali commentano il patito incendio del loro ciclomotore avvenuto nella precedente nottata ad opera di Angarussa Giuseppe, A tal proposito Di Nolfo, consapevole di appartenere all’associazione illecita monitorata, ammonisce Terrana Giovanni colpevole, a suo dire, di non essersi rivolto tempestivamente al loro gruppo criminale per dirimere tale dissidio: “…ma poi tu quando… quando avevi un problema, perché non venivi prima che lo risolvevamo prima…”.

Di rimando Terrana Giovanni, quasi a giustificarsi, fa presente che comunque l’incendio del proprio ciclomotore è avvenuto nella notte precedente.

Nel proseguo della conversazione, gli interlocutori discutono sulla motivazione che ha determinato l’atto incendiario compiuto dall’empedoclino Angarussa Giuseppe.

Quindi, evidentemente, come da accordi presi in precedenza, si recano presso  la casa rurale di contrada Zunica – Monserrato in Agrigento ove ad attenderli vi è Massimino Antonio al quale deve essere partecipato  quanto accaduto. Nel corso della conversazione Di Nolfo rassicura Terrana Giovanni in merito al loro interessamento alla vicenda.

Terrana Giovanni esterna  il proprio compiacimento, rimarcando i propositi di vendetta: “…bene. a me questo interessa. a me interessa avere a lui…’; esternazione che non lascia dubbi in merito.

Terrana Cristian fa presente di avere avuto modo di colloquiare con Angarussa Giuseppe e di avergli contestato l’incendio del ciclomotore, in quanto, verosimilmente, colto sul fatto.

Inoltre, a dire di Terrana Cristian, nel corso di detto incontro Angarussa avrebbe prospettato le proprie scuse, ammettendo inoltre di avere sbagliato: “Cri… scusa Cri, se ho sbagliato”.

Scuse che comunque non sortiscono l’effetto sperato tant’è che non vengono gradite da Terrana Cristian che sottolinea: “…no gli ho detto, ormai quello che hai fatto …inc…”.

Come si evince, il risentimento di Terrana Giovanni e del figlio Cristian è tale da recarsi dal mafioso Massimino Antonio, dimostrando il loro vincolo associativo e omertoso.

Giunti infine presso la casa rurale di contrada Zunica – Monserrato in Agrigento, nella disponibilità di Massimino Antonio, dopo una breve attesa voluta da Di Nolfo al fine  di annunciare la loro presenza al capo, i quattro soggetti fanno ingresso.

A conferma di quanto sopra affermato , nel corso della conversazione, Di Nolfo Alessio rimarca più volte l’autorevolezza di Massimino specie nei rapporti che intrattiene con personaggi di spessore (appartenenti alla criminalità organizzata), affermando: “…ieri, l’altro ieri ad undici fratelli, undici fratelli a Palma di Montechiaro, sai come è andata a finire?…: e ancora, “…di là alla  ”Marina” nessuno può parlare più, muti, tutti sotto di lui sono… i Messina… tutti… tutti…” ed ancora “giorni fa questi della ”Marina” questi grossi si sono messi in ginocchio, si sono messi a piangere…”.

Gli undici fratelli di Palma di Montechiaro a cui Di Nolfo fa riferimento sono i fratelli Pace, intesi “Cucciuvì’; ascrivibili all’associazione mafiosa denominata “Stidda’.

I Messina della “Marina’; indicati da Di Nolfo, si identificano nella nota famiglia mafiosa di Porto Empedocle, retta fino al suo arresto da Messina Gerlandino, esponente di vertice di cosa nostra in provincia.

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