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Sono vicini a Matteo Messina Denaro: 13 fermi, (vd)

Tra i fermi c'è anche l'ex manager dei trasporti di Trapani; indagato anche un sindaco e un agente di polizia penitenziaria

Pubblicato 3 anni fa

Blitz della Polizia nel trapanese nei confronti di una serie di presunti mafiosi molti dei quali vicini al numero uno di Cosa Nostra, il boss Matteo Messina Denaro. Sono 13 i provvedimenti di fermo emessi dai magistrati della Dda di Palermo che centinaia di agenti delle squadre mobili di Palermo e Trapani, supportati da quelli del Servizio centrale operativo, stanno eseguendo in queste ore.

Venti gli indagati tra i quali anche un sindaco, accusato di corruzione elettorale ed estorsione, e diversi imprenditori. In manette in seguito al blitz di polizia è finito anche l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, di origini agrigentine, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver assunto fittiziamente il leader della famiglia di Calatafimi Nicolò Pidone, al fine, tra l’altro, di far figurare l’esistenza di una regolare posizione lavorativa per ottenere un trattamento meno afflittivo nell’ambito di un procedimento per l’irrogazione di una misura di sicurezza di cui è destinatario.Le accuse ipotizzate nei confronti degli indagati sono, a vario titolo, associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso. E’ Antonino Accardo il sindaco indagato nell’ambito dell’inchiesta condotta dallo Sco della Polizia e coordinata dalla Dda di Palermo che ha portato al fermo di 13 mafiosi vicini al boss superlatitante Matteo Messina Denaro. Ad Accardo e’ stato notificato un avviso di garanzia con l’accusa di corruzione elettorale. Dalle intercettazioni e’ emerso che avrebbe pagato 50 euro a voto per le elezioni dell’anno scorso a sindaco del comune di Calatafimi Segesta (Trapani). Insegnante in pensione, 73 anni, Accardo ha alle spalle alcune esperienze da assessore e consigliere comunale a Calatafimi. 

Mafiosi, imprenditori incensurati, sindaci e manager ai vertici di aziende pubbliche. Non c’e’ solo la Mafia nell’inchiesta della Dda di Palermo che stamattina ha portato al fermo di 13 persone ritenute legate al boss latitante Matteo Messina Denaro. Nell’indagine, condotta dallo Sco della Polizia, c’e’ anche Salvatore Barone, ex presidente del consiglio di amministrazione ed ex direttore dell’azienda per i trasporti Atm di Trapani. Barone, che e’ stato fermato con l’accusa di associazione mafiosa, e’ anche presidente della cantina sociale Kaggera di Calatafimi e secondo gli inquirenti era al servizio del capo della famiglia mafiosa locale, Nicolo’ Pidone.

E’ Nicolo’ Pidone, gia’ condannato per associazione mafiosa, il personaggio chiave dell’inchiesta della Dda di Palermo che oggi ha portato al fermo di 13 tra fedelissimi del boss Matteo Messina Denaro, insospettabili manager pubblici e imprenditori, e all’iscrizione nel registro degli indagati di 20 persone tra le quali il sindaco di Calatafimi Segesta (Trapani). Pidone, ritenuto a capo della cosca di Calatafimi, organizzava summit di Mafia in una dependance fatiscente vicina alla sua masseria; li’ venivano assunte le principali decisioni che riguardavano il clan, secondo gli investigatori. Tra gli indagati anche altri condannati per Mafia come Rosario Leo, pregiudicato che vive a Marsala, e cugino di Stefano Leo, molto vicino al boss di Mazara del Vallo Vito Gondola, poi morto, e a Sergio Giglio, coinvolto nell’inchiesta sui favoreggiatori del capomafia Matteo Messina Denaro. Nelle indagini sono finiti pero’ anche insospettabili che, a vario titolo, hanno favorito le comunicazioni tra il capo della famiglia calatafimese, specie nel periodo in cui era sottoposto alla sorveglianza speciale, ed altri mafiosi, tra cui lo stesso Rosario Leo, anche’egli sorvegliato speciale. Tra coloro che favorivano gli incontri e le comunicazioni c’era il 46enne imprenditore agricolo vitese Domenico Simone, hanno ricostruito le indagini. Fermato anche l’imprenditore Leonardo Urso, di origini marsalesi, enologo, accusato di favoreggiamento.

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Il clan controllava il territorio attraverso l’esecuzione di ‘inchieste’ per ricostruire episodi criminosi avvenuti in zona e non “autorizzati” e interveniva con atti intimidatori nei confronti di chi collaborava con la giustizia, secondo gli inquirenti. In quest’ultimo ambito si inquadra l’incendio dell’auto dell’imprenditore Antonino Caprarotta, voluto da Pidone e realizzato insieme a Giuseppe Aceste e Antonino e Giuseppe Fanara. Caprarotta aveva denunciato l’imprenditore mafioso Francesco Isca ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione illecita dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi-Segesta. Tra i fermati anche Giuseppe Gennaro, altro esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi, accusato, oltre che di associazione mafiosa, anche di aver rubato un trattore agricolo, nell’interesse del clan insieme a Francesco Domingo, Sebastiano Stabile e Salvatore Mercadante. In cella anche il trentasettenne calatafimese Ludovico Chiapponello, indagato per aver favorito l’associazione mafiosa bonificando dalle microspie la depandance di Pidone. Indagato infine un appartenente alla Polizia Penitenziaria, a cui e’ contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio commesso per agevolare Cosa Nostra. Dall’inchiesta e’ emerso che il clan aveva la disponibilita’ di armi. Il fermo e’ motivato dall’intenzione di alcuni indagati di darsi alla latitanza e al progetto di pesanti ritorsioni verso uno dei mafiosi che sarebbe entrato in conflitto col capo della famiglia di Calatafimi.

L’indagine e’ coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessi’ e Piero Padova. 

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