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Racalmuto: discusse le possibilità che restano ancora alla giustizia (foto)

Si è concluso a Racalmuto il convegno su “Le possibilità che restano ancora alla giustizia”. Vi hanno partecipato nella sede della Fondazione Sciascia l’ex magistrato Carlo Nordio, lo scrittore Matteo Collura il giornalista Valter Vecellio, il direttore del Messaggero, Virman Cusenza, il docente di diritto costituzionale Giuseppe Verde. Tutti si sono chiesti quante possibilità rimangano […]

Pubblicato 5 anni fa

Si è concluso a Racalmuto il convegno su “Le
possibilità che restano ancora alla giustizia”.

Vi hanno partecipato nella sede della Fondazione
Sciascia l’ex magistrato Carlo Nordio, lo scrittore Matteo Collura il
giornalista Valter Vecellio, il direttore del Messaggero, Virman Cusenza, il
docente di diritto costituzionale Giuseppe Verde.

Tutti si sono chiesti quante possibilità rimangano
alla giustizia. Minime possibilità, ha detto al suo esordio Valter  Vecellio  mentre Carlo Nordio chiedendosi quale
giustizia troverebbe Sciascia oggi, ne dà una risposta non proprio
consolante: “Sciascia da autentico libertario e riformatore manterrebbe
intatto il vigore polemico per denunciare la deriva civile verso la quale
stiamo scivolando. Regressione incivile si è confermato da più parti che sta
vulnerando non solo i politici. sta aggredendo la stessa magistratura
cambiandone la credibilità come effetti funesti per la democrazia. Sciascia sarebbe
addolorato nell’assistere a questo degrado”.

Un ampio dibattito ha siglato la chiusura del convegno che ha raggiunto punte di aspra polemica tra Valter Vecellio e alcuni magistrati presenti in sala.

Pubblichiamo qui di seguito la relazione di
Matteo Collura che come biografo di Sciascia traccia una approfondita sintesi
di questo volere scandagliare, da parte di Sciascia, le possibilità che restano
ancora alla giustizia.

“Ho sempre sostenuto
che Leonardo Sciascia non fosse il pessimista che di lui
si dice. Anzi, lo ritenevo il contrario, dal momento che
si ostinava a
scrivere con
intenzioni pedagogiche – e direi propriamente educative –
nonostante la disperante realtà in cui era costretto a
vivere.
Un vero pessimista non pubblica ben tre libri in punto di
morte. Il vero
pessimista – giunto a quel punto – sbatte la porta e se ne
va. Sciascia,
invece, fece in tempo a vedere le copertine di tre suoi
libri, che sono, come
tutti
sappiamo, Fatti diversi di storia
letteraria e civile (la sua ultima raccolta
di saggi e articoli pubblicati in vari giornali e riviste); A futura memoria (se la memoria
ha un futuro)., che contiene i sui
scritti più significativamente polemici, anche questi apparsi sui giornali
negli ultimi mesi della sua vita); e Una
storia semplice
: racconto
felicemente stringato, di efficacissima prosa, essenziale, ma con dentro tutto
quanto richiede la narrazione di
genere poliziesco.

Una storia semplice si apre con una epigrafe tratta da un romanzo di Friedrich Durrenmatt, e che è alla base di questo
nostro incontro: “Ancora
una volta voglio
scandagliare scrupolosamente le possibilit
à che forse restano
alla giustizia”. Diciotto anni prima, nel 1971, Sciascia apriva il suo
inquietante romanzo Il
contesto con quest’altra epigrafe, tratta da un saggio di
Montaigne:
“Bisogna fare
come gli animali che cancellano ogni traccia davanti alla loro
tana”. Cosa intendeva dire, Sciascia, con quella epigrafe? Quelle parole prese
in prestito dallo
scrittore francese, erano un suo mettere le mani avanti? E sappiamo quanto Sciascia
pirandellianamente – e perci
ò inutilmente –abbia sempre messo le mani avanti, creando tuttavia una
sorta di genere letterario,
dando continuità a quello che può essere considerato un
prototipo, e che
Sciascia
senz’altro considerava tale: La storia della colonna infame di
Alessandro Manzoni.

Poche pagine, quel
saggio di Sciascia pubblicato nel 1982 con il titolo La
sentenza memorabile e che a me ha aperto gli occhi sul suo senso della giustizia, sulla sua idea di giustizia, sulla sua
avventura di scrittore
ossessionato dal
tema della giustizia.
Ecco la spiegazione
di quell’epigrafe (“Bisogna fare come gli animali che
cancellano ogni traccia davanti alla loro tana”): Bisogna farlo per “non farsi scoprire e trovare
dall’errore, dagli errori; e
dagli orrori di cui
gli errori facilmente avvampano”. E dunque non
aspettare che l’errore ci travolga, ma difendersene
rintanandosi nella
propria coscienza,
nella propria intelligenza. Non per sfuggire alla realt
à, al mondo, ma per non farsi condizionare e travolgere dagli
errori che lo
governano. Con quell’epigrafe, Sciascia aveva voluto chiarire che il
suo rifugiarsi nelle
lontane regioni della
coscienza e dell’intelligenza, altro non era – altro non
è – che una forma di difesa
dagli attacchi dell’errore, dalla sua ottusa
aggressività in nome di una moralità
superiore che la pratica politica – nelle
sue
varie articolazioni, nel suo quotidiano attuarsi, giustizia compresa – negava e
nega.
Non è un disertore, Sciascia. È il testimone che,
umiliato e offeso, per
avere avuto il
coraggio di cercarla e dirla la verit
à, si sottrae al teatrino dell’impostura istituzionale

“Né con le Brigate rosse né con questo Stato”, scrisse quando come una devastante bomba esplose  la notizia del rapimento di Aldo Moro, sterminata la sua scorta. Era una frase, questa, che aveva già usato – e con scandalo comprensibile – un anno prima, quando da moralista eretico aveva espresso il suo pensiero a proposito della difesa di uno Stato (quello Stato, lo Stato italiano del 1977), in disfacimento, preda della corruzione, inefficiente, ingiusto; uno Stato che ridotto alle condizioni in cui si trovava, agli occhi dello scrittore rendeva corresponsabili dei suoi guasti coloro i quali se ne facevano soccorritori. Ora, qui ci sono fior di giuristi che su questo argomento  potrebbero esprimere concetti utili e certo con meno approssimazione, ma io rivolgo a voi questa semplice domanda: è giusto, è moralmente giusto non reagire quando uno Stato di diritto si trasforma in “Stato del delitto”, secondo la celebre espressione di Hanna Arendt a proposito dei regimi totalitari in Europa tra le due guerre mondiali? Certo, stiamo parlando di un periodo ben preciso della storia del mondo, ma la questione che si pone – ieri come oggi – ha un aspetto morale e un aspetto giuridico che senz’altro vanno affrontati. Prendiamo le leggi di uno Stato, anche democratico, anche repubblicano. Se le sue leggi sono conformi alla Costituzione, tutto procede secondo equità e giustizia. Ma cosa succede, cosa può succedere se una legge non risponde a questi requisiti? Essa prevedibilmente sarà giudicata incostituzionale. Lo sarà, ma come dovranno comportarsi i cittadini fin tanto che quella legge – non degna della loro civiltà istituzionale e giuridica non sarà abrogata, resa nulla? Accettandola senza reagire – dice Sciascia si è corresponsabili dei guasti che essa provoca. Con quella frase (“Né con le Brigate rosse né con questo Stato”) lo scrittore afferma  qualcosa che ci costringe a una scelta estrema e rischiosa, ma che fa onore a noi figli della civiltà del diritto: non si può soccorrere uno Stato ingiusto, senza rendersene corresponsabili. Qualche mese fa, un articolo di Gustavo Zagrebelsky, apparso su Repubblica, mi è parso dare un, non certo volontario, assist a quanto affermato, quarantuno anni fa dal “pericoloso sovversivo” Leonardo Sciascia. Scrive Zagrebelsky in quell’articolo: “La disobbedienza alle leggi, nei casi estremi, in cui sono in questione valori ultimi come la vita, la libertà, la dignità delle persone, è una virtù repubblicana, quando essa significa rifiuto di convalidare l’ingiustizia con la propria Ubbidienza. Tutte le volte che ubbidiamo alla legge, infatti – argomenta Zagrebelsky -la fortifichiamo con la nostra acquiescenza. Insomma, se la legge è giusta, col nostro consenso fortifichiamo la giustizia, ma se essa è ingiusta, fortifichiamo l’arbitrio. Zagrebelsky concludeva quel suo civilissimo, indomito articolo, con queste parole: “Si dirà: ma tutto ciò implica coraggio, presuppone che ci si metta in gioco e si assumano rischi. Sì, è così. La Libertà non sa che farsene degli imbelli, dei paurosi, di coloro che pensano solo alla propria tiepida sicurezza. E gli imbelli e i paurosi, a loro volta, non sanno che farsene della libertà”. Sciascia scelse di scrivere non per gli imbelli e i paurosi, ma per coloro che hanno a cuore la verità e la giustizia, costi quel che costi. Per questo è uno dei rari scrittori europei del secolo scorso che può permettersi di dire di sé “preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli”.

Testo e foto di Diego Romeo

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