Agrigento

San Calò 2020: il grido del silenzio (gallery)

Oggi a mezzogiorno, ora fatidica dell’uscita del fercolo del Santo, il portone del santuario di san Calogero era sommerso da mazzi di fiori, da un sacchetto di plastica ricolmo di pani mentre accanto un solo panino poggiato su un foglio da sembrare  un assegno bancario, attirava l’attenzione.  Sulla piazzetta antistante due o tre coppie scattavano […]

Pubblicato 4 anni fa

Oggi a
mezzogiorno, ora fatidica dell’uscita del fercolo del Santo, il portone del
santuario di san Calogero era sommerso da mazzi di fiori, da un sacchetto di
plastica ricolmo di pani mentre accanto un solo panino poggiato su un foglio da
sembrare  un assegno bancario, attirava
l’attenzione. 

Sulla piazzetta antistante due o tre coppie scattavano foto ai loro bimbi insieme ad altre coppiette di fidanzatini che  guardavano il portone e poi  accennavano   un segno di croce. Intorno i rumori soffocati del transito delle auto e degli altri passanti, rassegnati e silenziosi.  

Grandangolo vuole ricordare ai suoi lettori questa mancata ricorrenza della festa san calogerina proponendo il testo di un documentario su san Calò girato da un regista agrigentino, il nostro direttore Diego Romeo, e che probabilmente parecchi ricorderanno perchè fu proiettato qualche anno fa  a Casa Sanfilippo del Parco Archeologico  e nella biblioteca Comunale di Agrigento.

Un testo che racchiude il senso di una festa che da oltre 500 anni coinvolge tra fede e paganesimo, le popolazioni di molti paesi siciliani. “Il miracolo avviene di solito verso mezzogiorno A un tratto il tumulto si raccoglie attorno a un gesto di braccia protese verso il cielo vicinissimo e stupito, curvo sulla piccola piazza infossata ribollente di sole e di grida, di facce straripate per l’eccitazione, di invocazioni e di bestemmie. Su nella scalinata dove per vedere ci si arrampica sulle spalle di chi sta davanti, arriva e si sfrange il clamore confuso della festa dentro il quale come spari improvvisi esplodono le grida della confraternita trattenute prima e poi precipitate e troncate fragorosamente sull’ultima vocale, Evviva san Calò. La statua del santo scura quasi come il ventre della chiesa da dove sbuca dondolante e incerta come un ubriaco avanza sotto una lenta pioggia di pani dorati e rotondi le cui traiettorie descrivono intricate parabole contro un angolo smaltato di cielo, solo a tratti si riesce a vedere giù nella piazza la folla che sbanda e ondeggia si comprime, si fende fino ad aprire un varco al mantello nero, agli occhi tristi, al viso smagrito, incredulo e nero di san Calò, ricurvo ed esile e con le mani aperte  sotto il libro a comporre un perfetto leggio. Cosa vede il santo, cosa contemplano i suoi occhi stupiti? I più abili, i più forti abbracciano la statua, l’accarezzano sulla testa e sulle spalle, sulla fronte lucida, la baciano con tenerezza e furore sugli occhi sbalorditi, forse il suo sguardo sta decifrando un segreto, contempla un altro prodigio meno illusorio ed effimero della tumultuosa resurrezione del suo popolo, del miracolo che ogni anno ribadisce la sua fama di grande mago, di formidabile sapiente, di santo e taumaturgo. Il popolo di san Calò vive infatti il tempo che separa due domeniche, le prime due domeniche di luglio. E’ solo un breve intervallo, un minuscolo strappo nella tessitura compatta del tempo, della grande giostra dei giorni che appaiono sopra la foschia di Punta Bianca e spariscono dietro le torri fumose di Porto Empedocle. Sono una fenditura sottile attraverso la quale irrompe e rivive  un antico popolo estinto o balena l’apparizione festante di un popolo che deve ancora venire ad abitare la città. Oppure ciò che ritorna è solo l’antico miraggio di un santo, un suo ingenuo sogno che abita un tempo diverso. Il popolo di san Calò è infatti estraneo al tempo di Agrigento, ai suoi spazi, alla folla che durante l’anno si muove inquieta e perplessa sotto le ombre dei palazzi cresciuti a ridosso della valle dei templi, dei quartiere che soltanto trent’anni fa cominciavano a scivolare sotto la linea che congiunge da est ad ovest la Rupe Atenea al quartiere berbero di Rabat, sovrapponendo alla campagna un allarmante paesaggio di cemento, di lamiere e di asfalto. Il popolo del santo non esiste ad Agrigento e non sa nulla di quell’altra folla non completamente desta, della folla sonnambula che ogni mattina si riversa nei corridoi, sale le scale, riempie le stanze e gli uffici delle banche, delle scuole, degli innumerevoli enti che si raggrumano nelle vene della città per improvvisati saltimbanchi del bisogno, per teatranti senza talento e ambizione, per finti disoccupati e finti occupati, per amministratori e amministrati finti, per preti spretati, per reduci pentiti di lontane e avventurose guerre perse, tutti polverosi e squallidi, disordinati e inutili, dove migliaia di solitudini proiettano silenziosamente nel futuro nuovi cantieri, nuovi appalti, seconde e terze case abusive, nuovi allacciamenti, nuovi permessi e concessioni, parole guadagni e  favori abusivi, una silenziosa enormità di piccole, ragionevoli e devastanti libertà abusive.

Il popolo del Santo non appartiene alla città, non può vederla e non può essere visto perché il tempo del miracolo è un presente effimero, disabitato dalla memoria. E’ il tempo della festa, uomini grossi e imbestialiti dal caldo e dalla birra fanno volteggiare in aria i neonati fino ad accostarli con un ultimo gesto delicato al volto terreo, africano del Santo. San Calò veniva infatti dalla costa tunisina, era africano, era nero e fuggiva le persecuzioni dei vandali ariani. Scampò lontano attraverso il mare, oltre il mare fin sulla terra di Sicilia, qui il fuggiasco, il pellegrino compì il prodigio, squarciò un pezzetto di cielo e lo rovesciò sulle campagne riarse di luglio, dentro i sogni dei disperati, dentro le nude case contadine, nelle grotte di Sciacca dove centinaia di infermi vennero nutriti, assistiti, curati e a volte inspiegabilmente guarendo da terribili malattie. Il miracolo è avvenuto allora e ogni anno un popolo in festa lo celebra e lo rinnova inoltrandosi attraverso una sottile smagliatura nella minuziosa trama del tempo, mentre il cielo per un giorno torna a curvarsi sulla fragile gibbosità del Santo che ormai sta per iniziare il suo viaggio su per Porta di Ponte, per via Atenea, Santo Spirito, la Badiola, su per la Bibbirria e san Gerlando e poi giù a precipizio per i confusi camminamenti della città berbera senza mai attraversare la linea che da est ad ovest congiunge la Rupe Atenea all’antichissimo quartiere di Rabbateddu”.

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