La faida Favara-Liegi, il ruolo di Quaranta: “Collaboratore affidabile ma non basta”
Per i giudici il collaboratore Quaranta, pur riconoscendone l’assoluta affidabilità, avrebbe riferito fatti non per diretta conoscenza ma anche per averlo saputo dai giornali: “N’capu Grandangolo c’era tuttu”
I giudici della Seconda sezione penale della Corte di Assise di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, hanno depositato le motivazioni della sentenza Mosaico, il processo scaturito dalla tristemente nota faida Favara-Liegi caratterizzata da quattro omicidi e altrettanti agguati falliti. Una sentenza, quella di Appello, che ha rivoluzionato il giudizio di primo grado annullando un ergastolo e riducendo drasticamente alcune delle pene inflitte agli imputati. Ad oggi, dunque, rimangono senza un colpevole i delitti di Mario Jakelich, ucciso il 14 settembre 2016 in Belgio; Carmelo Ciffa, operatore ecologico empedoclino, ucciso in pieno giorno a Favara il 26 ottobre del 2016; Emanuele Ferraro, ucciso a Favara l’8 marzo del 2018. A questi si aggiunge anche l’omicidio di Rino Sorce, ristoratore ucciso il 3 maggio 2017 a Sclessin, un sobborgo di Liegi.
In oltre centocinquanta pagine di motivazioni, per le quali i giudici della Corte di Assise di Appello hanno richiesto una proroga di ulteriori tre mesi proprio per la complessità della vicenda, un capitolo è dedicato alla figura del collaboratore di giustizia Giuseppe Quaranta. Quaranta per anni è stato al vertice della famiglia mafiosa di Favara ricoprendo anche il ruolo di braccio destro del boss Francesco Fragapane fino all’arresto nella maxi operazione Montagna. Il suo percorso di collaborazione con la giustizia è sempre stato proficuo, lineare e di assoluta affidabilità. Anche nell’inchiesta Mosaico ha fornito un contributo alle indagini con due verbali (febbraio e aprile 2018) in cui ha riferito circostanze sulla faida.
Ma per i giudici di Appello, così emerge dalle motivazioni, il fatto di essere un collaboratore credibile e affidabile non basta di per sé a condannare imputati in mancanza dei cosiddetti “riscontri individualizzanti”. In altre parole, per la Corte di Assise di Appello non si mette assolutamente in dubbio l’affidabilità di Quaranta ma, in questo processo, le sue dichiarazioni “pur rese in piena coscienza e buona fede” non forniscono riscontri generici. Questo perché, a dire della Corte, le conoscenze di Quaranta sui fatti oggetto del processo non sono dirette ma incamerate attraverso confidenze o dalla lettura dei giornali: “N’capu u giornali c’era tuttu… n’capu u Grandangolo..” (interrogatorio del 1 febbraio 2018). In tal senso si legge nella sentenza: “Grandangolo è il nome di una testata giornalistica – che oggi ha solo l’edizione settimanale online, consultabile all’indirizzo www.grandangoloagrigento.it – particolarmente vocata sui fatti di criminalità organizzata dell’agrigentino. Risulta, dalle produzioni difensive perfezionate all’udienza preliminare, come nei mesi della collaborazione giudiziaria di Quaranta, che del resto lo ha tranquillamente ammesso, il periodico, che al tempo aveva anche un’edizione cartacea, avesse dedicato moltissimo spazio d’informazione, ai fatti dell’odierno processo.“
Ecco cosa scrivono i giudici nella motivazione: “Quel che va detto, e che del resto balza subito agli occhi con riferimento alla ricostruzione dei fatti di sangue di questo giudizio, è come il collaboratore in parole, con apprezzabile linearità, avesse a suo tempo immediatamente riferito agli inquirenti che le (non molte) cose che egli aveva saputo sui fatti di sangue e sui reati collegati egli le aveva apprese de relato dall’amico Emanuele Ferraro (poi ucciso a Favara l’8 marzo 2018). Basta leggere i due interrogatori del febbraio 2018 e dell’aprile 2018 per verificare agevolmente questa molto rilevante circostanza. Emerge subito il fatto che Quaranta, nell’ambito di un percorso lineare della propria collaborazione, non avesse mai esplicitamente e diffusamente riportato agli investigatori il contenuto di confidenze esplicitamente fattegli dal predetto Ferraro, limitandosi piuttosto, con trasparenza, a segnalare di averne percepito il contenuto e la portato nel corso di una riunione tra accoliti malavitosi, tenutasi a Favara, in alcuni locali nella disponibilità di Russotto Gerlando dopo l’estate (e comunque non prima di Natale) del 2017. In altre parole, nei due interrogatori nei quali si è sostanziata la collaborazione di Quaranta in questo processo, il dichiarante non ha mai detto, in ipotesi schematica, qualcosa del tipo: “so le cose che vi sto riportando perché me le ha riferite il mio amico Emanuele Ferraro”, limitandosi a segnalare fatti che egli stesso onestamente ha sempre presentato come il frutto di proprie intuizioni e deduzioni ricavate dalle mezze frasi o dagli atteggiamenti nel corso di quella riunione a Favara.”
E ancora si legge: “La superiore considerazione non mina affatto, come prima facie potrebbe pensarsi la credibilità del dichiarante. Anzi, per paradossale che ciò possa apparire, la rafforza, consentendo a chi si confronti che le sue parole di apprezzarne la schiettezza. Nel riportare quanto appreso dalla viva voce di Emanuele Ferraro, Quaranta, infatti, lungi dall’indugiare in narrazione fluviali e debordanti, ha piuttosto sempre prospettato come le sue fossero semplici deduzioni mutuate da ciò che Ferraro, pur senza usare termini espliciti e con frasi smozzicate, ed eloquenti silenzi di assenso, gli aveva fatto intendere. Quanto al resto delle dichiarazioni del collaboratore, lo stesso Quaranta, poi, non aveva mai omesso – ed in questo tutti gli atti di appello che lo hanno rilevato hanno colto nel segno – di riferire, nel corpo dei due interrogatori citati, di aver appreso molti dei particolari che egli stava riferendo al PM che lo interrogava, solo dalla lettura dei giornali che riferivano i fatti: “N’capu u giornali c’era tuttu… n’capu u Grandangolo..” (interrogatorio del 1 febbraio 2018).
I giudici, infine, concludono: “Tutti gli operatori del diritto penale sanno bene come ai fini della declaratoria certa della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l’emissione di una misura cautelare personale e, poi, superata un’ulteriore soglia di saldezza dimostrativa, per la condanna di un imputato, risultino necessari i riscontro individualizzanti alla chiamata in correità. Si sta parlando di quei riscontri capaci, cioè, non solo di corroborare il contenuto delle accuse di un collaboratore di giustizia ma, soprattutto, di mettere in relazione il chiamato in correità e la di lui condotta col reato oggetto dell’accertamento.”