Apertura

Trattativa Stato-Mafia, ribaltone in Appello: assolti Dell’Utri e i carabinieri

Assolti i vertici del Ros e Dell'Utri, pena ridotta al boss Bagarella e reati prescritti per Brusca

Pubblicato 3 anni fa

La Corte di assise di Palermo ha assolto il senatore Marcello Dell’Utri e i carabinieri del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Cio’ ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cina’. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perche’ il “fatto non costituisce reato”, mentre Dell’Utri “per non aver commesso il fatto”. Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.

LE REAZIONI

“Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo”. Cosi’, laconicamente, il procuratore generale Giuseppe Fici ha commentato la valanga di assoluzioni al processo d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. “Felici perche’ finalmente la verita’ viene a galla“. E’ la prima reazione del generale del Ros Mario Mori e dell’ex capitano Giuseppe De Donno, manifestata attraverso i legali, dopo la sentenza del processo d’appello Stato-mafia che li ha assolti, ribaltando quella di primo grado. “E’ una bufala, un’invenzione, un falso storico”, commenta a caldo l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori. Insieme al collega Francesco Romito, che difende De Donno, ha sentito il proprio assistito: gli ufficiali si sono detti “felici” “perche’ finalmente la verita’ viene a galla”. “Grazie alla conoscenza profonda che ho del rigore etico di mio padre, grazie alla famiglia, agli amici, ai miei colleghi, non ho mai avvertito la necessità di una riabilitazione del mio cognome, scandito sempre a chiare lettere, a voce ferma, in ogni ambito istituzionale in cui ho lavorato. Si riabilitino gli altri, se possono, si riabilitino coloro che negli anni, a processo in corso, a vario titolo e livello, hanno leso mio padre, la sua indiscutibile ‘appartenenza’ allo Stato, colpendolo al cuore irrimediabilmente, ferendo la vita di mia madre, la mia e quella di mio fratello“. Lo ha detto Danila Subranni, figlia del generale Antonio Subranni, assolto in appello nel processo trattativa Stato mafia. “Per quel che ci riguarda, chiederemo che ne rispondano a uno a uno, nei modi possibili che la legge ci consentirà di perseguire. In base al principio di garanzia che vale per tutti: chi sbaglia, paga- dice – Tutto questo nell’amara consapevolezza che la giustizia, comunque, non ha prevalso. Perché in questi anni ha vinto l’uso ‘creativo’ della giustizia, che ha coinvolto un servitore dello Stato, la torsione della verità per fini ambigui, in ultimo per una vana gloria, peraltro mai raggiunta da coloro che sulla condanna di mio padre avevano investito. Un immenso grazie al nostro avvocato, Cesare Placanica, un professionista di alto livello, che con passione e generosità ci ha accompagnato in questo difficile e lunghissimo percorso, portando avanti una linea di difesa elegante, coraggiosa, seria. Uno per tutti, voglio ricordare con orgoglio un attacco che è stato scritto con disprezzo e che, invece, conteneva una bellissima verità: si’, e’ vero, noi siamo una ‘famiglia di Stato'”, conclude. “E’ un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verita’ e’ venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro”. Lo dice l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori commentando la sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia“. “Abbiamo sentito sia il generale Mori che De Donno e sono molto contenti. La sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico”, ha aggiunto. “Non abbiamo mai dubitato dell’estraneita’ del Generale Mario Mori e degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno alla vicenda per la quale per anni sono stati inchiodati e additati come traditori dello Stato. Questa sentenza ci obbliga ad una lettura radicale della narrazione di questi anni. La riforma della giustizia e in particolare la responsabilita’ civile sono una impellente necessita’”. Lo dichiarano in una nota Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale.

IL PROCESSO D’APPELLO

 L’appello, nel corso del quale e’ stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, e’ cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo e’ uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa. A rappresentare l’accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Al termine del primo dibattimento, la Corte d’Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cina’ e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presento’ appello e quindi l’assoluzione divento’ definitiva. Per la cosiddetta trattativa e’ stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l’ex ministro Dc Calogero Mannino. “Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista. La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verita’ inconfessabile, di una verita’ che e’ dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perche’ o si sta contro la mafia o si e’ complici. Non ci sono alternative”, aveva detto l’accusa durante la requisitoria del processo d’appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado. Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito “cinghia di trasmissione” tra i clan e gli interlocutori istituzionali.

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

La trattativa ci sarebbe stata. Il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sarebbe stato siglato. Questo era emerso dal duro dispositivo della Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, pronunciato il 20 aprile 2018 nell’aula bunker del Pagliarelli al termine di oltre quattro giorni di camera di consiglio. Con questa conclusione processuale, formulata in primo grado, si e’ confrontato il processo d’appello che si e’ aperto il 29 aprile 2019 e che oggi approda a sentenza. L’accusa, rappresentata dai sostituti pg Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, alla fine della requisitoria del 7 giugno scorso ha chiesto la conferma della condanne di primo grado: 28 anni per il boss Leoluca Bagarella, 12 anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, nonche’ Antonino Cina’, medico e fedelissimo di Toto’ Riina. Condanna a 8 anni per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e per Massimo Ciancimino, per calunnia, quest’ultimo poi stralciato e prescritto. 

PRIMO GRADO, LE MOTIVAZIONI

Le motivazioni del primo grado sono state depositate il 19 luglio 2018, nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Dopo anni di udienze, boss e politici sono stati dichiarati colpevoli del reato di minaccia e violenza al corpo politico dello Stato. Per Marcello Dell’Utri sono state punite le condotte commesse contro il governo Berlusconi: i carabinieri del Ros sono stati condannati per i fatti commessi fino al 1993, Dell’Utri per i fatti del 1994; da una parte la trattativa sarebbe stata intavolata dai carabinieri, da un certo punto in poi da Dell’Utri. Condannati a 12 anni di carcere i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e il boss Antonino Cina’; a 28 anni Leoluca Bagarella, la pena piu’ pesante. Otto anni al colonnello Giuseppe De Donno. Stessa pena per Massimo Ciancimino accusato di calunnia nei confronti dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre e’ stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione per Giovanni Brusca. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Una motivazione colossale per un processo poderoso. 

“DISPONIBILITA’ AL DIALOGO ACCELERO’ STRAGE BORSELLINO”

Tra le 5.252 pagine la convinzione che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilita’ al dialogo – e in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio”. Per cui, secondo i giudici di primo grado, “non vi e’ dubbio” che i contatti fra Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, “unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina gia’ come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”. Insomma, “quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisce un sicuro elemento di novita’ che puo’ certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino” con la finalita’ di approfittare “di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato”. E questo e’ un fatto anche laddove non si volesse convergere sulla conclusione dell’accusa secondo cui “Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa”. 

“RIINA INCORAGGIATO A METTERE IN GINOCCHIO LO STATO”

Secondo i giudici “quei contatti che gia’ all’indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti ufficiali dell’Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento Scotti-Mancino al ministero dell’Interno, ndr) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina gia’ come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa. n altre parole se effettivamente quei segnali pervennero a Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D’Amelio (e che cio’ effettivamente avvenne risulta provato) e’ logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D’Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi fu la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili”. 

“ROS AGEVOLARONO IL PROGETTO DI COSA NOSTRA”

Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno agirono con “il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l’attivita’ di un’associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalita’”. Gli imputati, secondo la prima sentenza del processo stato-mafia, stimolarono “il superamento del muro contro muro e quindi l’indicazione, da parte dei vertici mafiosi, delle condizioni per tale superamento”. In questo modo, “si e’ inevitabilmente rappresentato il vantaggio che certamente sarebbe in ogni caso derivato per Cosa nostra nel momento in cui fosse venuta meno la contrapposizione frontale la forte azione repressiva dello Stato, gia’ culminata nelle pesanti pene del maxiprocesso e piu’ recentemente dopo la strage di Capaci nelle misure anche di rigore carcerario del decreto legge adottato dal governo l’8 giugno 1992”. Il ruolo di Marcello Dell’Utri “come intermediario delle minacce di Cosa nostra a Silvio Berlusconi – secondo i giudici di primo grado – non si colloca nel momento in cui quest’ultimo decise di scendere in politica, ma fu espresso dopo che fu formato e insediato il nuovo governo presieduto proprio da Berlusconi”. 

“DELL’UTRI INTERMEDIARIO MINACCE A BERLUSCONI”

Il riferimento sono gli incontri che Dell’Utri, condannato a 12 anni, ebbe con l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano “in almeno due occasioni, la prima tra giugno e luglio 1994, la seconda nel dicembre dello stesso anno, per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”. Il collegio di primo grado concordava con le argomentazioni difensive di Dell’Utri, che negano che le iniziative “fossero state effetto diretto di una minaccia”, legandole piuttosto a “libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte di Forza Italia che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi”. “Cio’ pero’ non toglie che ugualmente gli interventi di Mangano nei confronti di Dell’Utri possano avere avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l’effetto intimidatorio, purche’ comunque percepibile, possa avere inciso concretamente sulla sua liberta’ psichica e morale di autodeterminazione”. “Le promesse o quantomeno la disponibilita’ manifestata da Dell’Utri per soddisfare le esigenze di Cosa nostra hanno contribuito all’entusiastico appoggio dato da quest’ultima in Sicilia alla nascente nuova forza politica”. I giudici parlavano di un ruolo di Dell’Utri “tutt’altro che neutro, perche’ non si sarebbe limitato ad ascoltare e a raccogliere le richieste dei mafiosi, ma avrebbe ancora manifestato disponibilita’ nel farsi carico delle iniziative del governo Berlusconi. I magistrati ricordavano che “l’evento del reato contestato non e’ costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati, ma esclusivamente dalla percezione da parte di Berlusconi, in qualita’ di capo del governo, della pressione psicologica operata da Cosa nostra col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi”. In altri termini la Corte sosteneva che Dell’Utri “continuava ad informare Berlusconi di tutti i suoi contatti anche dopo l’insediamento del governo da quest’ultimo presieduto e vi e’ la definitiva conferma che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che una inattivita’ nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. 

MANNINO ASSOLTO ANCORA, COLPO A TESI ACCUSA

L’11 dicembre 2020 Calogero Mannino era stato assolto anche in Cassazione. “Non solo non e’ possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di la’, cioe’, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna, ma anzi, e’ stata in questa sede ulteriormente acclarata l’assoluta estraneita’ dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli” riguardo “alla cosiddetta trattativa Stato-mafia”: cosi’ si leggeva nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, in secondo grado, dell’ex ministro Dc, accusato di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato. Una sentenza, quella su Mannino, pronunciata il 22 luglio 2019, dalla Prima sezione penale della Corte di appello di Palermo, e poi confermata dalla Cassazione. Il collegio di Palermo aveva ribadito nel luglio 2019 l’assoluzione emessa in primo grado il 4 novembre 2015 dal gup di Palermo. Il processo d’appello era iniziato il 10 maggio 2017. L’accusa il 6 maggio 2019, al termine della requisitoria aveva chiesto, in riforma della sentenza di primo grado la condanna a 9 anni di reclusione per Calogero Mannino (la stessa chiesta dai pubblici ministeri in primo grado). Per i giudici di Palermo, pero’, risulta “indimostrato che Mannino abbia operato pressioni per la revoca del regime del carcere duro, secondo la tesi accusatoria che lo vuole come input, garante, e veicolatore alle autorita’ statali della minaccia contenuta nella trattativa”. PG, 

HANNO AGITO MENTI RAFFINATISSIME E PUPARI

Nel maggio 2021 il Pg nel processo d’appello sottolineava: “Chi ha agito fuori dalle leggi lo ha fatto per salvare un determinato assetto di potere e per tutelare il rapporto con la politica. Lo ha fatto facendo favori ai mafiosi, al di fuori dalle corrette dinamiche democratiche. E noi vogliamo sapere perche’. C’e’ qualcuno che dopo avere letto e sentito le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli atti su via D’Amelio, dubiti dell’esistenza di soggetti che hanno agito nell’ombra? Nessuno, riteniamo noi, dubita dell’esistenza di menti raffinatissime, di pupari che hanno agito nell’ombra. Se ci venisse spiegato il perche’ del piu’ grande depistaggio della storia saremmo in grado di valutare e magari avviare una riconciliazione con chi chiede ancora oggi giustizia e verita’. Invece si preferisce tacere o dichiarare il falso piuttosto che raccontare la verita’”. E a giugno al termine della requisitoria l’accusa proseguiva: “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si e’ fatto sotto. Ma questo induce ulteriore violenza. Poi una volta arrestati Riina e i fratelli Graviano”, le stesse menti raffinatissime “garantiscono una latitanza protetta per Bernardo Provenzano. Nel frattempo nasce Forza Italia. Ma i fatti rimasti accertati non possono essere nascosti e taciuti: le verita’, anche scomode, devono essere raccontate. Un ruolo decisivo in questa situazione di convivenza gattopardesca lo ha avuto anche Dell’Utri che ha curato la tessitura dei rapporti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta con il potere politico. E lo stesso Berlusconi, chiamato a testimoniare sull’argomento, si e’ avvalso della facolta’ di non rispondere. Un suo diritto certo, ma di certo ci si aspettava un contributo diverso su questo argomento”.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *