Cultura

Sciascia: Una bussola nel deserto delle ideologie

Era stato annunciato da parecchi mesi che lo scrittore e giornalista Matteo Collura, massimo biografo di Leonardo Sciascia con il suo “Il maestro di Regalpetra”, avrebbe  celebrato la ricorrenza del 20 novembre a trent’anni dalla morte dello scrittore racalmutese, nella biblioteca Lucchesiana di Agrigento.  Una lectio magistralis interpretata più che letta da Collura il 20 […]

Pubblicato 4 anni fa

Era stato annunciato da parecchi mesi che lo scrittore e giornalista Matteo Collura, massimo biografo di Leonardo Sciascia con il suo “Il maestro di Regalpetra”, avrebbe  celebrato la ricorrenza del 20 novembre a trent’anni dalla morte dello scrittore racalmutese, nella biblioteca Lucchesiana di Agrigento. 

Una lectio magistralis interpretata più che letta da Collura il 20 novembre scorso, di fronte alle massime cariche istituzionali agrigentine e di un pubblico attentissimo che affollava la Lucchesiana,( regalata al comune dal vescovo Lucchesi Palli, ma che oggi lo stesso comune stenta a riconoscere come suo bene).  

Una lectio iniziata in Sicilia, a giugno,  nella sede della Legione carabinieri di Palermo (“Quando il capitano Bellodi scese da cavallo”) e proseguita in decine di città italiane ed estere (Cracovia e Lisbona tra le altre) e soprattutto a Milano nella sede esclusiva e prestigiosa di Casa Manzoni

Ebbene ad Agrigento la rappresentanza comunale era assente. Un’assenza che da sola va ad aggiungersi alle manchevolezze della vivibilità agrigentina e probabilmente alla qualità della cultura di una città che non dovrebbe aspirare, in tal modo, alle millanterie.

“Non è uno scrittore dimenticato Leonardo Sciascia” esordisce Matteo Collura e del suo dire facciamo qui una sintesi,- anzi è il caso si parli di una persistenza della memoria che fa dell’autore del Giorno della civetta un immancabile protagonista del dibattito culturale e politico dei nostri giorni. Perché? Qual è il motivo al di là della popolarità che ebbe trenta, quaranta, cinquant’anni fa? E questa domanda – aggiunge Collura –  ne suscita un’altra, ineludibile, trattandosi di un intellettuale tutt’altro che accomodante: come ne esce Sciascia da questa insolita persistenza del ricordo?

In “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia”, l’autore fa dire al protagonista: ”La morte è terribile non per il non esserci più ma per l’esserci ancora in balia dei mutevoli ricordi, dei mutevoli pensieri di coloro che restano”. 

E così Sciascia oggi è tutto e il contrario di tutto, una coperta che ognuno tira dalla propria parte, un simbolo da ricucire su ogni bandiera o, all’opposto, un cattivo maestro da tenere lontano dalle antologie o ricordare come un irresponsabile eversore del diritto e dei sacrosanti poteri costituzionali. Leonardo Sciascia è ricordato senza dubbio, ma in molti casi temo lo sia non per le opere narrative e saggistiche ma per un suo  articolo di giornale. Uno solo, il cui titolo è diventato uno slogan, pronunciato il quale molti sono convinti di poter liquidare un’intera esistenza. Un’intera storia personale, un intero percorso intellettuale che ha dato all’Italia del Secondo Novecento non soltanto lo specchio in cui guardarsi ma i rimedi per correggere i difetti che lo specchio inesorabilmente rifletteva.

 La letteratura come specchio, le pagine di uno scrittore come lo specchio che riflette la Sicilia della mafia e dell’antimafia. E perciò ecco l’articolo di giornale che condannò Sciascia all’ostracismo: “I professionisti dell’antimafia”, il suo titolo. Sciascia con quell’articolo aveva in animo di affermare soltanto un principio di legalità e giustizia ed è provato dall’incontro amichevole  che ebbe qualche tempo dopo con Paolo Borsellino in cui risaltò la reciproca stima. E’ un fatto comunque che con quell’articolo, Sciascia osò attaccare il fronte che in Sicilia coraggiosamente combatteva la barbarie mafiosa.

Perché? Si chiede Collura.  Non trovandosi risposte a questa domanda, per una sorta di supposto regresso psi­cologico, dovuto anche al suo essere siciliano («sicilianotropposiciliano», parafrasando Nietzsche), lo scrittore finì per essere considerato un po’ mafioso anche lui. In realtà, da siciliano, Sciascia difendeva la Sicilia, i siciliani, dalle strumentalizzazioni politiche e propriamente di consorteria che la lotta alla mafia, in alcune sue espressioni, metteva in atto. 

Non vi poteva essere denuncia – più lacerante in Italia, in quel 1987. Tuttavia, ancorché isolato e attaccato dal vasto fronte progressista, come il suo compaesano Fra Diego La Matina (protagonista di Morte dell’inquisitore) Sciascia non cedette nell’affermazione della sua eresia. Va restituita verità e giustizia, a Leonardo Sciascia, così come, nello scrivere L’affaire Moro, libro che fa onore alla letteratura italiana, egli fece con l’autorevole uomo politico democristiano. 

Un libro, questo, dalla forte tensione religiosa e, potremmo dirlo la testimonianza più alta della religiosità di Sciascia. Un libro che egli concepì quando si avvide che il presidente della Dc, il potente Aldo Moro in preda ai suoi carcerieri, nudo, spogliato di ogni potere, da perso­naggio si era fatto, pirandellianamente all’ incontrario, creatura.

Leonardo Sciascia va ricordato per avere pubblicato Il giorno della civetta (una aperta denun­cia del fenomeno mafioso nel 1960, quello l’anno in cui fu scritto), ma anche per aver con­cepito libri come L’affaire Moro, La scomparsa di Maiorana, II contesto, Todo modo. 

Opere, queste, che idealmente collocano l’autore in una sorta di appendice della grande letteratura francese de “j’accuse“. I suoi modelli, oltre al pedagogico scetticismo di Montaigne, furono, infatti Voltaire, Zola, Gide. E su tutti, Alessandro Manzoni, l’autore della Storia della colonna infame, opera che, Sciascia ancora ragazzo, gli fece intendere la letteratura come azione morale. Se letto con questo con­vincimento, tenendo conto di quella che fu la sua vera bussola letteraria e intellettuale, ci si rende conto che Leonardo Sciascia va liberato dalla “sicilianità” (o peggio, “sicilitudine”) che lo avvolgono come in una nebbia che non lascia intravedere altro. Sciascia non c’entra niente con la Sicilia del folclore e del divertente intrattenimento.

La Sicilia per lui non era un teatrino su cui imbastire storielle pittoresche, dallo scontato sociologismo. Era propriamente la me­tafora del mondo, così come s’intitola un libro-intervista che racconta la sua vita. Metafora di un mondo, la Sicilia, la cui “deser­tificazione ideologica” è la stessa che denunciò Pier Paolo Pasolini..!  Ci si chiede, e mi sono chiesto nello scrivere un libro sulla vitae le opere di Sciascia, come mai il nome di un intellettuale come Pasolini possa essere legato a quello dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra. Non vi potrebbero essere due vicende umane., due personalità, due stili di vita così diversi tra loro. Eppure, quando nel 1975 Pasolini fu assassinato, Sciascia scrisse: «Io ero, e lo dico senza vantarmene, dolorosamente, la sola persona m Italia con cui lui potesse veramente parlare. Abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».

 A quarantaquattro anni dalla scomparsa del poeta e regista friulano e a trenta da quella dello scrittore siciliano, una cosa oggi appare (o dovrebbe apparire) certa: Sciascia e Pasolini sono stati gli intellettuali più importanti del. Secondo Novecento italiano.

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