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Un solo grido! Viva Diu e San Calò

Tutti curvi, tutti sudati, tutti in una dimensione caotica che è solo ed esclusivamente narese: un'ora di ordinaria follia alla quale pure Dio ormai si è arreso.

Pubblicato 5 ore fa

Tra poco è San Calogero. Il diciotto giugno Naro urla, senza fiato, copre pure le trombe della zingarella che riecheggia per tutta la città. Non me lo ricordo come si ricordano le date: me lo ricorda l’aria. Quel vento caldo che a Naro comincia a tremare già il 16, il 17, come se avesse fiutato la banda, la cubbaita, le preghiere. Me lo ricorda l’odore che s’arrampica dai vicoli, i gruppi elettrogeni che vorrebbero scoppiare, quello dello zucchero filato bruciato, delle patatine. Me lo ricorda il brusio delle sedie tirate fuori e messe davanti i garage e che si ergono ad agenti di polizia locale per evitare di farsi sequestrare in casa da un “frustieri” che ha parcheggiato male. Ogni anno, da trent’anni, San Calò mi prende per mano e mi fa risalire Viale Umberto con gli occhi di ogni età che ho avuto.

Da bambino, lo guardavo salire e piangevo, non per devozione – quella è venuta dopo, lenta, mischiata al rispetto – ma per paura. Il santo nero, grande, pesante. Sembrava arrabbiato. Da adolescente guardavo la processione come si guarda un film che conosci a memoria ma che non riesci a smettere di riguardare.

Poi sono cresciuto. E il giorno di San Calogero è rimasto sempre lì. Immobile. Sempre lo stesso giorno. Perchè, scusatemi, San Calogero è il 18 Giugno. Un pilastro in un paese che nel frattempo ha perso. Ha perso lavoro, ha perso figli e figlie. Ha perso resilienza, indignazione ma si vanta di accogliere migliaia di emigrati ogni anno che ritornano solo per la festa, e non sempre. Ma lui no. Lui resta. Cammina per noi, sudato, pensate che a un certo punto della processione inizia davvero a scolare e i miei concittadini lo “stuiano” con pezze, magliette, cappellini, tra “un grido!” e l’altro, tra gli scalzi e gli scettici, trainato con delle corde sporche di invocazioni e promesse. Non vi immaginate nemmeno la memoria, la speranza e la testardaggine di un popolo come il mio.

Quest’anno, forse più di altri, ho sentito il bisogno di scrivere. Perché a forza di tirare avanti, la vita ha preso il vizio di sembrare una processione anche lei. Tutti curvi, tutti sudati, tutti in una dimensione caotica che è solo ed esclusivamente narese: un’ora di ordinaria follia alla quale pure Dio ormai si è arreso. Sì, Dio, perchè i naresi sono furbi: “San Calò un si tocca, San Caluriuzzu è u miegliu ma prima veni Diu e quindi Viva Diu e poi San Calò”, una sorta di indulgenza che si sono assicurati ogni anno.

Ma questo fa parte del miracolo, no? Trasformare la confusione in rito. Il sudore in grazia.

San Calogero è il patrono di un paese che ride anche mentre perde pezzi, che balla mentre si sgretola, che cucina anche quando la pensione non basta. Un paese che ha imparato a sopravvivere.

E allora domani, anche se la vita pesa e il futuro inciampa, sali a Naro, parcheggia pure dove vuoi, tanto ti perdoneranno. Anche se hai smesso di credere in tante cose, anche se sei stanco… sali lo stesso a Naro.

Perché quando passa San Calogero, per un attimo, si ferma tutto: il dolore, la fatica, la lontananza. E qualcosa dentro – qualcosa che avevamo dimenticato – si riaccende. È come se il tempo facesse un passo indietro, e per pochi istanti siamo bambini di nuovo, figli di qualcuno, fratelli di tutti. Senza vergogna. Senza paura.

È lì che capisci che nonostante tutto, nonostante i vuoti, nonostante gli anni che passano, c’è ancora un cuore che batte insieme al tuo. Quello del paese. Quello della memoria. Quello di chi non c’è più, ma ti cammina accanto mentre guardi il santo salire. E se ti scappa un urlo, non fermarlo. A Naro, il 18 giugno, anche le urla sono una forma d’amore. Viva Diu e San Calò

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