La stidda uccideva 31 anni fa il giudice Rosario Livatino
Il 21 settembre 1990 la Stidda uccideva il giudice Rosario Livatino
Fu ucciso il 21 settembre 1990. Il 3 ottobre Rosario Livatino, il Giudice Beato, avrebbe compiuto 38 anni.A bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicatti’ dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando, quel giorno di 31 anni fa, fu avvicinato, braccato e ammazzato senza pieta’ da un commando mafioso. “Dinanzi all’Eterno non ci sara’ chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”, affermo’ in una occasione, parole che descrivono una vita. Ripensando alla figura del magistrato siciliano, Papa Francesco ribadi’ che resta un esempio “non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualita’ delle sue riflessioni”.
“CONTRO LA GIUSTIZIA LASSISTA” In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino, beatificato lo scorso 9 maggio, e’ stato ammazzato perche’ “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attivita’ criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioe’ una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che e’ poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.
“MAFIOSI CONVERTITEVI!” Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che defini’ “martire della giustizia e indirettamente della fede”, quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, aggrappato al Crocifisso, lancio’ il suo grido di pastore e profeta, in un contesto dilaniato dalle stragi e dalle faide di mafia e caratterizzato da posizioni ancora troppo timide da parte delle istituzioni, Chiesa compresa. Poco prima Wojtyla aveva incontrato i familiari del giudice Antonino Saetta, ucciso con il figlio Stefano nel 1988, e i genitori di Livatino, papa’ Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e la mamma Rosalia Corbo. Queste le parole del Papa santo che tuonarono nella Valle dei Templi: “Che sia concordia! Dio ha detto una volta: non uccidere! Non puo’ l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione… mafia, non puo’ cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che da’ la vita, non puo’ vivere sempre sotto la pressione di una civilta contraria, civilta’ della morte!. Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che e’ vita, via, verita’ e vita. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verra’ il giudizio di Dio!”.
“PICCIO’, CHE COSA VI HO FATTO?” Per don Giuseppe Livatino, primo postulatore del processo di beatificazione nella Diocesi di Agrigento, apparve “subito chiaro che la storia e il miracolo di Rosario Livatino non rispondevano al cliche’ del ‘giudice ragazzino’ che va incontro alla morte senza sapere e capire”. Livatino affronta “il sacrificio supremo nella piena consapevolezza perche’ erano gia’ chiare le indiscrezioni che circolavano nell’estate del 1990”. Il sacerdote richiama soprattutto due episodi: “L’ultima frase, prima del colpo di grazia, guardando in faccia gli assassini che lo avevano inseguito: ‘Piccio’, che cosa vi ho fatto?’. Li richiama. Aziona l’arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente portera’ chi spara a pentirsi”. E ancora: “Nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso viene colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino dice: ‘Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!'”.Per il religioso, Livatino e’ stato un giudice “giusto” in quanto “alla legge bisogna dare necessariamente un’anima, sosteneva. Spiegando che l’obiettivo della giustizia e’ redimere chi sbaglia e reinserirlo nella societa’ civile”.
LA STATALE DELLA MORTE Il mattino in cui lo uccisero, il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla citta’ dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari della Stidda hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma e’ stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma e’ stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui e’ maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, furono uccisi il presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo, mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.
IL ‘RAGAZZINO’ CON LA TOGA Rosario consegui’ la laurea in Giurisprudenza all’Universita’ di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode. Nella sua attivita’ Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli siciliana’ e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. La storia di Livatino e’ stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scriveva Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera societa’ e la sua morte, piu’ che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.