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Mafia, processo Montagna: in aula la ricostruzione del traffico di droga

Erano almeno tre i canali di approvvigionamento utilizzati dalle famiglie mafiose del Mandamento della Montagna: quello ragusano, quello calabrese e quello nisseno. A raccontarlo, nell’ambito del processo Montagna che si celebra con il rito ordinario avanti la prima sezione penale del Tribunale di Agrigento, è un luogotenente dei carabinieri, assoluto protagonista durante le indagini, che […]

Pubblicato 5 anni fa

Erano almeno tre i canali di approvvigionamento utilizzati dalle famiglie mafiose del Mandamento della Montagna: quello ragusano, quello calabrese e quello nisseno. A raccontarlo, nell’ambito del processo Montagna che si celebra con il rito ordinario avanti la prima sezione penale del Tribunale di Agrigento, è un luogotenente dei carabinieri, assoluto protagonista durante le indagini, che è tornato in aula per riprendere la testimonianza cominciata due udienze addietro.

 Il campo su cui si è spostata la “partita” – dopo aver ben illustrato gli organigrammi delle varie famiglie mafiose che compongono il mandamento – è quello del traffico di stupefacenti.

 Il luogotenente ha ricostruito le fonti di approvvigionamento delle cosche agrigentine indicandoli nella famiglia mafiosa di Comiso, retta in quel momento da Concetto Giuseppe Errigo, 56 anni, già condannato alla pena di 6 anni e 6 mesi in seguito al suo arresto del 2010 quando fu trovato con mezzo chilo di cocaina; nella famiglia mafiosa di San Cataldo, il cui reggente è Antonio Domenico Cordaro, con una lunga lista di precedenti penali tra cui traffico di droga e mafia; infine quello calabrese che faceva riferimento a Vincenzo Politanò, 68 anni, pregiudicato, protagonista anche di furti di bestiame.  

L’indagine, come raccontato in aula, si concentra su Giuseppe Quaranta (oggi collaboratore di giustizia): grazie ad intercettazioni telefoniche, ambientali e servizi di osservazione vengono ricostruiti e documenti tutti gli spostamenti in tal senso dell’ex referente della famiglia Fragapane: viaggi verso il ragusano, verso la Calabria. Sempre finalizzati all’acquisto di partite di droga. Quando andavano in porto lo stupefacente veniva poi ripartito sulle piazze agrigentine. Tre le principali: Raffadali, Racalmuto e Favara. Nei primi due casi sono stati anche effettuati alcuni riscontri con sequestri ma nel caso di Favara, come spiegato dal luogotenente, gli inquirenti sono stati molto più cauti al fine di evitare di far sentire la pressione delle indagini a Quaranta e “bruciare” un’immensa mole di lavoro investigativo. 

Favara, come detto, risulta la piazza di spaccio più operativa: a servizio diretto di Quaranta, secondo l’impianto accusatorio, ci sarebbe stata una rete di pusher che poi smistava le dosi al dettaglio. Un ruolo non di poco conto in tal senso veniva rivestito dal favarese Antonio “Sandro” Licata ritenuto il luogotenente – per il traffico di droga – di Giuseppe Quaranta nonché custode dello stesso stupefacente. Oltre a lui un nutrito gruppo di più o meno giovani, tra cui anche il figlio stesso di Quaranta, impegnati poi nello spaccio. 

Il troncone del processo ordinario, che si celebra ad Agrigento avanti la prima sezione penale presieduta da Alfonso Malato con a latere i giudici Alessandro Quattrocchi e Giuseppa Zampino, vede imputate sei persone: si tratta dell’ex sindaco di San Biagio Platani Santo Sabella, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa; Giuseppe Scavetto, 50 anni di Casteltermini, e dei favaresi Antonio Scorsone, 54 anni, Domenico Lombardo, 27 anni, Calogero Principato, 28 anni, e Salvatore Montalbano, 27 anni. L’accusa è sostenuta in aula dal sostituto procuratore della Dda di Palermo Alessia Sinatra. Si torna in aula il 2 maggio.

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