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Processo Stato-mafia, Corte d’Appello: “Accertata assoluta innocenza Mannino”

“Anche alla stregua dell’ approfondita rinnovazione dell’istruzione dibattimentale esperita dinanzi a questa Corte, non solo non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna ma anzi, in questa sede è stata ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali […]

Pubblicato 4 anni fa

“Anche alla stregua dell’ approfondita
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale esperita dinanzi a questa Corte,
non solo non è possibile ribaltare
con
valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza
di primo grado trasformandola in condanna ma anzi, in questa sede è stata
ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte
materiali contestategli”.

Lo scrivono i
giudici della prima sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da
Adriana Piras, nelle motivazioni della sentenza con cui il collegio ha assolto
l’ex ministro Dc Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a Corpo politico
dello Stato.

L’ex politico,
assolto anche in primo grado, era sotto processo in uno stralcio del procedimento
sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

“Tanto – prosegue la corte nelle motivazioni
alla sentenza – a prescindere da una
valutazione più complessiva, sia dal punto di vista della ricostruzione
storica, sia di quella giuridica – della cosiddetta ‘trattativa Stato – mafia’,
valutazione che si è appalesata del tutto superflua rispetto alle concrete e
troncanti risultanze relative alla specifica posizione del Mannino e che,
dunque, è insuscettibile di approfondimento in questa sede”.

La sentenza è
stata pronunciata, il 22 luglio scorso, dalla Prima sezione penale della Corte
di appello di Palermo. Il collegio – presieduto da Adriana Piras – aveva
confermato la sentenza di assoluzione emessa in primo grado il 4 novembre 2015
dal Gup di Palermo. Adesso il deposito delle motivazioni, oltre mille pagine,
con cui il collegio d’appello illustra il percorso che ha portato alla decisione.

Il processo è iniziato il 10 maggio 2017. L’accusa – rappresentata dai sostituti pg Sergio Barbiera e Giuseppe Fici – il 6 maggio 2019, al termine della requisitoria aveva chiesto, in riforma della sentenza di primo grado, la condanna a 9 anni di reclusione per Calogero Mannino (la stessa chiesta dai pubblici ministeri in primo grado). Il 20 maggio, nel corso della arringa difensiva – Grazia Volo, Marcello Montalbano e Carlo Federico Grosso – chiesero l’assoluzione del politico.

La sentenza
prosegue: “Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito
anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate
promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi
processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza
assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa
della sua specifica azione di contrasto a ‘Cosa nostra’ quale esponente del
governo del 1991”.

 La corte smantella la tesi dell’accusa secondo
la quale Mannino, minacciato da Cosa nostra per non aver mantenuto i patti,
avrebbe avviato, grazie ai suoi rapporti con i carabinieri del Ros, una
trattativa finalizzata a dare concessioni ai clan in cambio di una
assicurazione sulla vita.

Ed ancora: “E’
“indimostrato che Mannino abbia operato pressioni per la revoca del regime
del carcere duro, secondo la tesi accusatoria che lo vuole come input, garante,
e veicolatore alle autorità statali della minaccia contenuta nella trattativa,
cade in via definitiva”.

I giudici
(presidente Adriana Piras, relatrice Maria Elena Gamberini) proseguono:
“E’ pacifico che la reazione violenta decisa da Totò Riina, all’azione
posta progressivamente in essere dallo Stato contro Cosa nostra mediante la
legislazione antimafia del 1991, fu deliberata dal capo corleonese alla fine del
1991 e con evidenti finalità non ricattatorie, ma di vendetta reattiva: contro
gli amici che avevano tradito (Lima), contro i magistrati che avevano
contribuito alla lotta contro la mafia, nonchè contro altri soggetti
istituzionali che si erano battuti contro Cosa nostra sul fronte politico,
amministrativo, legislativo, tra cui non si può escludere – sostengono i
giudici – alla luce di quanto prima esposto, che rientrasse anche il ministro
Mannino”.

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